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Intrieri-Foto-2-600x397Vengono illustrati, in sintesi, i risultati di due esperienze condotte sul vitigno Sangiovese: la prima è relativa agli effetti della defogliazione meccanica basale dei germogli in fase di pre-fioritura; la seconda si riferisce agli effetti della defogliazione meccanica apicale dei germogli in fase di inizio invaiatura.

Le motivazioni per il primo gruppo di indagini sono legate al fatto che il Sangiovese è un vitigno caratterizzato da una fertilità molto alta delle gemme basali e presenta grappoli molto grandi e compatti, facilmente soggetti ad infezioni botritiche. Per queste caratteristiche, i bassi limiti produttivi richiesti dalle norme che regolano le denominazioni di origine (DOC e DOCG) per i vigneti di Sangiovese delle migliori aree della Toscana (8-10 t/ha di uva), possono essere mantenuti solo attraverso un forte diradamento manuale dei grappoli, effettuato all’epoca dell’invaiatura. Questo intervento è comunque molto costoso (30-40 ore uomo/ha/anno) e, generalmente, comporta un aumento della compattezza dei grappoli residui, che pertanto risultano più sensibili agli attacchi botritici.

Le basi fisiologiche della defogliazione basale dei germogli in pre-fioritura sono legate al fatto che in tale fase le foglie adiacenti ai grappoli rappresentano la fonte principale dei nutrienti che sono necessari ai bottoni fiorali per completare il processo di allegagione. L’eliminazione meccanica, totale o parziale, di tali foglie è facile e di costo ridotto (3-4 ore di lavoro/ha), ed è stato sperimentalmente accertato che tale pratica determina una forte riduzione dell’allegagione e della produzione, senza bisogno di ulteriori e costosi interventi di diradamento manuale. I grappoli che si formano sono anche più spargoli, meno soggetti ad attacchi botritici e quasi sempre di qualità migliore (più colore, completa maturazione fenolica).

Il secondo gruppo di ricerche (defogliazione meccanica apicale dei germogli in fase di invaiatura) è motivato dal fatto che i cambiamenti climatici verificatisi negli ultimi dieci anni e l’incremento delle temperature estive hanno fatto sì che in molte aree della Toscana le sommatorie termiche registrate dal mese di aprile al mese di ottobre (espresse in gradi giorno attivi = “degree days”) siano aumentate da circa 1800°C fino a un massimo che in taluni casi ha raggiunto i 2200°C.  Come risultato, l’epoca di vendemmia del Sangiovese, che in passato era di norma verso la fine di ottobre, oggi deve essere spesso anticipata anche di 2-3 settimane per evitare che la gradazione zuccherina sia troppo elevata e che sia troppo bassa l’acidità del mosto. Nonostante l’anticipo della vendemmia, può comunque capitare che il grado alcolico potenziale sia già troppo elevato (attorno ai 14° alcool) e che non si sia ancora completo il corredo aromatico dell’uva e la maturazione fenolica.

Il presupposto fisiologico della utilità della defogliazione apicale all’invaiatura risiede nell’accertata conoscenza che nel periodo estivo la capacità assimilativa che determina l’accumulo zuccherino negli acini è essenzialmente dovuta alle foglie più giovani che si trovano nella zona centrale ed apicale dei germogli. L’eliminazione  di una quota del 30-40% di queste foglie riduce la produzione totale dei carboidrati, rallenta la loro accumulazione all’interno delle bacche e, di fatto, rallenta e normalizza tutto il processo di maturazione.

Le indagini hanno messo in evidenza che per essere efficace la defogliazione apicale deve essere effettuata nella zona al di sopra dei grappoli (per evitare scottature), eliminando una quota del 30% circa di foglie. L’epoca ottimale per l’intervento è all’inizio della invaiatura, quando non più del 50% degli acini è invaiato e il grado zuccherino del succo non ha ancora superato i 14-15 °Brix.

Le prove hanno dimostrato che utilizzando questa tecnica in modo corretto l’accumulo zuccherino viene rallentato e la raccolta può essere convenientemente ritardata, con effetti positivi per il mantenimento di una buona acidità del succo e per il completamento della sintesi aromatica e della maturazione fenolica delle uve.

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DSC_1004Colpa della peronospora, e anche dell’oidio. Dopo 30 anni di scetticismo e ostilità l’Italia autorizza la coltivazione dei primi vitigni resistenti selezionati negli anni ’80 in Germania presso l’Istituto per la viticoltura di Friburgo (Tab.1). L’iscrizione nel Registro nazionale è avvenuta nel luglio dell’anno scorso. L’autorizzazione alla coltivazione in Veneto e Lombardia (che si aggiungono così al Trentino Alto Adige) è di questa estate. Il clima umido e piovoso di quest’anno e i pesanti attacchi delle crittogame spingono però a fare di più. Le varietà tedesche sono infatti caratterizzate da resistenze per lo più monogeniche e soprattutto hanno un ciclo breve e una maturazione precoce. Non sono adatte per tutte le Regioni italiane. La soluzione è dietro l’angolo. Il nostro Paese ha il primato della prima decodifica del genoma della vite e l’attività di ricerca negli istituti che si sono sfidati per raggiungere questo importante risultato nel 2008 non si è esaurita.

L’effetto additivo dei geni

«L’attività di miglioramento genetico della vite – spiega Riccardo Velasco del Centro Ricerca e Innovazione della Fondazione Mach (San Michele all’Adige -Tn)- punta alla combinazione di diversi genotipi con resistenze di differente origine». È la cosiddetta pirimidazione: partendo da varietà di provenienza americana (come Muscadinia rotundifolia) o asiatica (Vitis amuriensis) e reincrociandole con varietà di Vitis vinifera si punta a “diluire” progressivamente il contributo del donatore esogeno (che può portare deviazioni organolettiche non gradite), ma soprattutto a concentrare più geni di resistenza in un solo genotipo élite. Fin dall’avvio di questa attività è stata infatti chiara l’esistenza di diversi livelli di resistenza (l’immunità non esiste). Sia la peronospora che l’oidio sono sensibili all’effetto additivo di geni diversi di resistenza. In Nord Europa per arrivare alle prime varietà ci sono voluti decenni di incroci e selezioni presso i centri di ricerca di Friburgo in Germania e Pecs in Ungheria. La selezione assistita con marker molecolari consente oggi di velocizzare il processo di selezione (e la verifica della presenza di più geni di resistenza) e qui entrano in gioco gli Istituti di ricerca italiani. Presso la Fondazione Mach negli ultimi 4 anni sono stati effettuati 73 incroci, che hanno dato origine a 2500 semenzali in tunnel. Per vedere in anteprima le varietà del futuro Miva (i moltiplicatori viticoli italiani) ha organizzato a San Michele all’Adige un convegno in occasione del recente Congresso nazionale. In questa circostanza Velasco ha spiegato che dalle 32mila piantine sottoposte a screening dal 2009 sono stati selezionati 200 genotipi con diversi gradi di resistenza, 98 genotipi con resistente piramidate e 223 con nuove resistenze. L’obiettivo è quello di ottenere entro pochi anni nuove varietà con almeno due geni di resistenza per oidio e due per peronospora. E oltre al carattere resistenza si punta anche a differenziare l‘epoca di maturazione e a migliorare il contenuto in terpeni, ma anche sull’apirenia dell’uva da tavola. 

Iga vicino al traguardo

Dopo anni di forzata inattività (i vitigni coltivati sono almeno bicentenari) è così ripartita l’attività italiana di miglioramento genetico della vite. E sembra ancora più vicina a raccogliere i frutti l’attività di ricerca approntata da Iga, Istituto di genomica applicata dell’Università di Udine. È attesa infatti a giorni (entro fine 2014) l’iscrizione nel Registro nazionale delle prime dieci varietà resistenti a perono- »»» spora e oidio (v. Tab.2) ottenute dal team di ricercatori friulani in collaborazione con l’Università di Udine e i Vivai cooperativi Rauscedo. Si tratterebbe del traguardo di un’attività di ricerca partita 15 anni fa che attraverso un programma di incroci progressivi di varietà di Vitis vinifera nazionali e internazionali con varietà resistenti come Bianca, Regent o “20-3” ha puntato all’introgressione di resistenze robuste e durature in nuovi vitigni caratterizzati da un ottimo profilo organolettico.

L’avversione agli ibridi

Un’iscrizione attesa (la domanda è stata presentata a fine 2013) che consentirebbe di superare per la prima volta uno scoglio normativo. La storica avversione italiana per gli ibridi produttori diretti (i fragolino e i clinto una volta tanto diffusi) ha determinato infatti il vincolo di dover iscrivere nel Registro varietale nazionale solo le categorie Vitis vinifera e “ibridi interspecifici”, di cui solo le prime sono ammesse a coltivazione per la produzione di uva da vino. In Germania prevale invece il criterio ampelografico (se i tratti predominanti sono quelli della vite europea, allora si può si può registrare come vinifera e quindi coltivare). Nel caso delle varietà friulane, il fatto che le linee di introgressione selezionate contengano una porzione nettamente preponderante di genoma di Vitis vinifera rispetto agli ibridi interspecifici conosciuti finora e il precedente dell’iscrizione delle varietà di Friburgo dovrebbero far propendere verso l’autorizzazione alla coltivazione. Anche perché l’Unione europea, nell’ultima riforma della piramide qualitativa del vino, ha introdotto una categoria che calzerebbe a pennello ai vini ottenuti con queste nuove varietà: quella dei vini varietali, appunto, che in Italia ancora stentano a decollare.

Il “sangue” nostrano

Occorre però superare alcune criticità. «La tipicità – sostiene Mauro Catena di Cantine Riunite – è il tratto caratteristico della nostra produzione, quello che ci fa vincere la sfida rispetto a i produttori del nuovo mondo. Sarebbe stato forse meglio se invece dell’introgressione del “sangue” americano o asiatico si fosse proceduto allo screening delle resistenze presenti nelle nostre popolazioni. Varietà come il Lambrusco dovrebbero contenerne ». «Negli Usa – afferma Enrico Zanoni di Cavit -, nostro principale mercato di riferimento, è soprattutto la varietà ad orientare le scelte dei consumatori. Non so se c’è spazio per nuove iscrizioni e la carta della sostenibilità è in questo caso difficile da spiegare». 

«Veniamo da un’annata – ribatte Maurizio Gardini, presidente di Confcooperative –in cui gli agricoltori hanno dovuto farsi carico di costi notevoli, sia in termini di denaro che di tempo, per fare fronte ai problemi causati da peronospora e oidio. Qualsiasi soluzione che consenta di abbassare il numero dei trattamenti contribuisce alla sostenibilità economica delle aziende. E rafforza il rapporto di fiducia con i consumatori».

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uvaIl vino avrà il proprio padiglione a Expo 2015. Il vino made in Italy alla kermesse che prenderà il via a maggio 2015 a Milano avrà a disposizione uno spazio di circa 2mila metri quadri che si troverà all'interno dell'area denominata Padiglione Italia all'incrocio tra i cardo Nord Est e il decumano, nella piazza centrale dell'intera area Expo dove godrà della massima visibilità. Un padiglione sul quale finalmente è stato alzato il sipario oggi a Roma. FOTO Taste of Italy, il padiglione del vino per Expo 2015 Bracco: ecco cosa vogliamo raccontare nel Padiglione del vino Sarà "Vino, a taste of Italy" il nome del Padiglione, realizzato in collaborazione dal ministero per le Politiche agricole, Padiglione Italia e Veronafiere (l'ente organizzatore di Vinitaly) e che sarà innanzitutto diretto a raccontare la storia del rapporto fra uomini, natura e territorio. continua a leggere

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