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20151217_102508Il Piano olivicolo nazionale era già stato annunciato nella primavera 2015 ma è difficile che veda la luce prima dell'estate 2016.

Il comitato tecnico agricolo della Conferenza Stato-Regioni, infatti, lo ha messo in stand by. La mancata approvazione blocca la possibilità di erogare i 32 milioni di euro previsti dal Piano e destinati, almeno in parte, al rinnovo degli oliveti e all'impianto di nuovi olivi.

Secondo quanto risulta a Teatro Naturale le perplessità degli assessori regionali all'agricoltura, che hanno chiesto un incontro al Ministro Martina, riguardano le potenziali interazioni tra i Piani di sviluppo rurale, in particolare le misure in campo olivicolo, e il Piano olivicolo nazionale.

E' noto che sono le Regioni ad aver in mano la cassa dei Psr e non accettano di buon grado che linee guida possano essere centralizzate presso il Ministero delle politiche agricole.

Il via libera al Piano olivicolo nazionale, dunque, è condizionato a un accordo politico tra il titolare di via XX settembre e gli assessori regionali. Un compromesso non semplice e che richiederà tempo per essere trovato ed attuato.

Gli assessori regionali all'agricoltura, con la decisione assunta il 17 marzo, smentiscono così sia il Ministro Martina sia il Viceministro Oliverio.

Martina aveva addirittura annunciato, durante la presentazione del progetto Extract, che l'approvazione del Piano olivicolo nazionale da parte della Conferenza Stato Regioni sarebbe avvenuta l'8 marzo. In realtà, come risulta a Teatro Naturale, la Conferenza Stato-Regioni non aveva nemmeno calendarizzato il provvedimento per tale data.

E' stato smentito anche il Viceministro Oliverio che, in occasione di Olio Capitale, ha annunciato che i decreti attuativi del Piano olivicolo nazionale sarebbero stati varati appena dopo Pasqua. “Siamo arrivati - ha spiegato Olivero, dando per scontata l'approvazione del Piano - a conclusione del percorso per quanto riguarda il decreto olio e la possibilità di andare ad attuare quelle norme che nell'anno passato abbiamo previsto per sostenere questo comparto".

Non è nemmeno servito il pressing dell'ultimo minuto dei deputati pugliesi del PD. “L’approvazione del Piano olivicolo nazionale non può essere più rinviata. Governo e Regioni devono trovare subito l’accordo che garantisce agli olivicoltori fondi e opportunità di sviluppo”. Lo affermano i deputati pugliesi del Partito Democratico, invitando l’assessore regionale pugliese alle risorse agroalimentari Leo Di Gioia, coordinatore del settore nella Conferenza Stato-Regioni, a “sollecitare tutti i colleghi a farsi carico di questa responsabilità, diventata più gravosa dopo la scelta dell’Unione Europea di incrementare la quota di olio tunisino esente da dazio”.

Gli olivicoltori, insomma, dovranno aspettare per vedere i primi bandi del Piano olivicolo nazionale. Le risorse a loro destinate dovrebbero aggirarsi sui 10 milioni di euro, mentre gli altri 22 milioni, oltre che per Xylella, verranno destinati alle organizzazioni dei produttori per concentrare l'offerta e migliorare la qualità, nonché per un piano di promozione dell'olio extra vergine di oliva Made in Italy.

di T N
pubblicato il 18 marzo 2016 in Strettamente Tecnico > L'arca olearia

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20151217_102508Un taglio corposo alle tasse che gravano sulle imprese agricole. E’ questo uno dei principi cardine della legge di stabilità 2016 (approvata il 22 dicembre, ndr) vista con soddisfazioni dalle principali organizzazioni agricole e dal ministro Maurizio Martina, che parla già di svolta fiscale senza precedenti.

La pressione tributaria viene tagliata oltre del 25% nel settore agricolo nell’anno di Expo – commenta il ministro – grazie alle scelte fatte con questa legge raggiungiamo un obiettivo importante di riduzione tributaria per latutela reale del reddito dei nostri  agricoltori, in un passaggio delicato per il settore e a sostegno del rilancio di investimenti e occupazione. Proprio così l’agroalimentare italiano è oggi al centro delle politiche economiche e di sviluppo del Paese come non accadeva da anni”.

Analizzando nel dettaglio la legge di stabilità sul versante agricolo, la misura più rilevante è l’abolizione di Imu e Irap dei terreni agricoli, prevista con lo stanziamento di 600 milioni di euro. Crescono le compensazioni Iva per le produzioni di latte e carni fino al 10%, con una spesa di oltre 50 milioni di euro. Viene esteso il credito d’imposta per gli investimenti produttivi anche all’agricoltura e alla pesca nelle aree del Mezzogiorno, mentre è previstal’estensione degli sgravi per le assunzioni a tempo indeterminato anche nel settore agricolo.

Viene rifinanziata la cassa integrazione della pesca per 18 milioni di euro per il 2016, mentre viene confermato il budget di 140 milioni di euro in due anni a sostegno delle assicurazioni contro le calamità. Per quanto ilprogramma nazionale triennale della pesca e dell’acquacoltura 2013-2015, all’interno della legge di stabilità è prevista la proroga del piano con un rifinanziamento di 3 milioni di euro nel 2016.

45 milioni di euro sono poi destinati al rinnovo delle macchine agricole, con un fondo, creato presso l’Inail, destinato a finanziare gli investimenti per l’acquisto o il noleggio con patto di acquisto di macchine o trattori agricoli. Infine, a livello amministrativo, per incrementare l’accesso al credito delle imprese agricole, l’Istituto sviluppo agroalimentare (Isa) e la Società gestione fondi per l’agroalimentare (Sgfa) saranno incorporati in Ismea.

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vino-cantine-italia-U101753536568uC--258x258@IlSole24Ore-WebUn primo colpo di scure sulla burocrazia del settore vino. Il ministro per le Politiche agricole, Maurizio Martina, ha firmato il decreto attuativo del provvedimento “Campolibero” (il dl 91/2014) che consente la “dematerializzazione” dei registri di carico e scarico nel settore vitivinicolo. Il provvedimento rappresenta inoltre il primo step sul percorso di sburocratizzazione avviato nel settore vitivinicolo e che conoscerà una seconda tappa importante nei prossimi giorni nel corso del Vinitaly di Verona (dal 23 al 25 marzo prossimi) quando sarà presentata di Giorgio dell'Orefice - Il Sole 24 Ore leggi

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112834-600x400Le proteine vegetali sono al centro dell’attenzione della politica agraria comunitaria e nazionale.

Due eventi politici confermano questa affermazione:

- la nuova Pac 2014-2020 ha inserito una dotazione specifica nel sostegno accoppiato;

- il ministro Maurizio Martina le ha inserite nelle proprie linee programmatiche.

Ampie ragioni giustificano l’attenzione alla produzione di proteine vegetali, soprattutto nel nostro Paese, che vive di un cronico deficit di approvvigionamento.

Le colture

Le colture destinate alle proteine vegetali sono: piante proteiche (pisello proteico, fave e favette, lupino dolce), proteoleaginose (girasole, soia, colza) e foraggere leguminose (erba medica, trifoglio, ecc.).

Tali colture consentono al produttore agricolo di migliorare l’ordinamento produttivo, stimolando la rotazione tra colture depauperanti e colture da rinnovo, interrompendo la monosuccessione di cereali. Inoltre contribuiscono a favorire la rotazione, con molteplici benefici ambientali:

- migliorano la struttura e la fertilità del terreno;

- riducono l’impiego di fertilizzanti di sintesi e di agrofarmaci;

- evitano i gravi rischi di abbandono e/o di depauperamento dei terreni a causa della monocoltura di cereali.

Tali vantaggi hanno spinto l’Unione europea a promuovere un “piano proteine vegetali” che, tuttavia, è stato lasciato alla volontà degli Stati membri e solo in pochi hanno colto questa opportunità.

Nell’attuale articolo 68, la Francia ha destinato 40 milioni di euro annui per sostenere la produzione di proteine vegetali. Nessun segnale dall’Italia!

Il nuovo sostegno accoppiato

L’opportunità più concreta per stimolare la produzione di proteine vegetali deriva dalla nuova Pac 2014-2020.

Gli Stati membri possono destinare una percentuale del massimale nazionale per concedere aiuti accoppiati per una larga gamma di prodotti: cereali, semi oleosi, colture proteiche, legumi da granella, lino, canapa, riso, frutta a guscio, patate da fecola, latte e prodotti lattiero-caseari, sementi, carni ovine e caprine, carni bovine, olio d’oliva, bachi da seta, foraggi essiccati, luppolo, barbabietola da zucchero, canna da zucchero e cicoria, prodotti ortofrutticoli, bosco ceduo a rotazione rapida.

L’obiettivo di questa tipologia di pagamenti diretti è di concedere un sostegno accoppiato a quei settori o a quelle regioni in cui esistono determinati tipi di agricoltura o determinati settori agricoli che:

- si trovano in difficoltà;

-rivestono una particolare importanza per ragioni economiche, sociali o ambientali.

Il finanziamento del pagamento accoppiato deriva da una percentuale fino al 13% del massimale nazionale. Inoltre gli Stati membri hanno la possibilità di aumentare il finanziamento del pagamento accoppiato del 2%, arrivando quindi fino al 15%, per sostenere la produzione di colture proteiche.

L’importo massimo a disposizione dell’Italia per le proteine vegetali è di 79 milioni di euro (2% del massimale dei pagamenti diretti nel 2015) destinato a scendere fino a 74 milioni di euro (2% del massimale dei pagamenti diretti nel 2019).

Le scelte nazionali

Le decisioni degli Stati membri sul sostegno accoppiato dovranno essere notificate alla Commissione entro il 1° agosto 2014.

L’Italia dovrebbe cogliere questa opportunità per stimolare la produzione di proteo-leaginose (soia, girasole e colza), di leguminose proteiche (favino, pisello proteico, ecc.) e di foraggere leguminose (erba medica, trifoglio, ecc.) e di foraggi essiccati.

Nel periodo 2010-2014, l’Italia non ha colto questa possibilità, ma stavolta è proprio la volta buona.

Il ministro Maurizio Martina nelle linee programmatiche, presentate alla Camera e al Senato, ha affermato l’importanza di realizzare un piano proteine vegetali su vasta scala, al quale sarebbero associati una serie di importanti obiettivi:

1) ridurre la dipendenza dall’estero in termini di approvvigionamento di proteine vegetali: oggi si importa il 90% circa delle farine di soia e di girasole, che rappresentano la principale base proteica dell’industria mangimistica italiana;

2) ridurre l’inquinamento da nitrati, nelle regioni del bacino idrografico del fiume Po, grazie alla reintroduzione delle rotazioni colturali tra cereali e colture “azotofissatrici”;

3) offrire una valida alternativa produttiva da avvicendare ai cereali.

Queste affermazioni fanno presagire la scelta italiana di inserire le proteine vegetali nei settori del sostegno accoppiato, seppure non ci sono ancora ipotesi sullo stanziamento e sugli importi ad ettaro.

Il greening e il PSR

Nella Pac 2014-2020, oltre al sostegno accoppiato, sono previsti diversi altri strumenti per lo sviluppo di colture proteiche: facilitazioni nel pagamento ecologico (greening), misure agro-climatico-ambientali dei nuovi PSR, PEI (Programma Europeo per l’Innovazione).

Il Parlamento europeo ha chiesto espressamente “un piano strategico di approvvigionamento di proteine vegetali che consenta all’Unione di ridurre la sua forte dipendenza dall’estero”.

Nell’applicazione del green-ing, le superfici occupate da colture che fissano l’azoto (colture azotofissatrici), assolvono l’impegno di aeree ecologiche. In altre parole, una superficie a erba medica, a soia o favino consente di ottemperare al 5% delle superfici ad aree ecologiche, previste dai vincoli del greening.

I nuovi PSR

Nei nuovi PSR è prevista una misura, i pagamenti agro-aclimatico-ambientali, che si sposa perfettamente con i vantaggi delle colture proteiche.

A tal fine si può prevedere una rotazione obbligatoria con almeno una coltura proteica, nonché un maggiore sostegno alle zone di pascolo permanente, comprese le miscele specifiche di foraggi verdi e leguminose.

Un’altra possibilità è la concessione di sussidi per gli agricoltori che producono colture proteiche con sistemi di rotazione che contribuiscono a ridurre le emissioni di gas a effetto serra e il deficit di colture proteiche nell’UE e a rafforzare la lotta contro le malattie e la fertilità dei suoli.

L’innovazione con il PEI

Il Parlamento europeo ha invitato a sostenere la ricerca in materia di riproduzione e fornitura di sementi per le colture proteiche nell’Ue, a migliorare i servizi di divulgazione e, nell’ambito dello sviluppo rurale, i servizi di formazione per gli agricoltori sull’uso della rotazione.

A riguardo, l’iniziativa europea per l’innovazione in agricoltura (PEI) della Commissione europea dovrebbe istituire ungruppo di lavoro sullo sviluppo di colture proteiche, prendendo in considerazione anche la questione della biodiversità delle piante.

L’Italia e le proteine vegetali

L’eccezionale impennata dei prezzi della soia e delle farine proteiche nel 2012 ha messo in evidenza il grave rischio di una tale dipendenza estera di proteine vegetali. Basti pensare all’aumento del prezzo della soia che in Italia è passata da 200 euro/ton del 2005 agli 550 euro/ton nel 2013; oggi si attesta sui 470 euro/ton (fig. 1).

Il deficit europeo ed italiano di proteine vegetali è rilevante. Nell’Ue, la produzione totale di colture proteiche occupa attualmente solo il 3% dei terreni coltivabili e fornisce solo il 30% delle colture proteiche utilizzate come alimenti per animali nell’UE, con una tendenza, negli ultimi dieci anni, all’aumento di tale deficit.

L’obiettivo non è di produrre nell’Unione europea la totalità del fabbisogno, ma migliorare l’approvvigionamento interno a vantaggio degli utilizzatori, soprattutto gli allevatori.

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Il calo dei consumi che va avanti da anni non era sufficiente. Le ritorsioni russe all’embargo europeo neanche. Allora, per dare un altro colpo all’agricoltura italiana ci voleva l’Europa. Un doppio colpo: il taglio dei fondi della Pac (politica agricola comune) di oltre sei miliardi di euro, in termini reali, per il periodo 2014-2020; e l’abolizione delle quote latte dal 2015. Proprio quelle che i leghisti, ma non solo, volevano a tutti i costi abolire e di cui oggi stanno scoprendo l’importanza, perché la loro abolizione ci farà sommergere di latte dell’Est a basso prezzo. Può bastare? No, perché la Commissione europea ha in mente di tagliare altri 448,5 milioni di euro dalla Pac, per finanziare altre politiche a corto di risorse, le misure contro la diffusione del virus Ebola e soprattutto il problema del blocco russo all’ importazione.

Pac, le forbici europee

Forse non tutti lo sanno, ma alle politiche agricole viene destinata la parte maggiore dei fondi europei. L’Europa si è fatta le ossa proprio sull’agricoltura e ha messo a punto parlando di campi e bestiame gli strumenti di negoziazione, complessi al limite del barocco, che oggi vengono presi a modello per l’unione bancaria. Fino agli anni Ottanta alla Pac andava il 70% del bilancio Ue, a sua volta pari a circa l’1% del Pil degli Stati dell’Unione. Poi il peso è cominciato a scendere inesorabilmente, di settennato in settennato. Nel 2007-2013 la quota era calata al 43 per cento. Per il 2014-2020, dopo due anni e mezzo di discussioni interminabili, è stata fissata al 38 per cento. In soldoni, sono 362,79 miliardi di euro.

Negli ultimi decenni la scelta di Parlamento, Commissione e Paesi membri è stata quella di far crescere gli stanziamenti per la competitività e per la coesione sociale, sia con una ripartizione tra Stati sia con programmi che premiano i progetti europei sulla base della qualità, indipendentemente dalla provenienza, come Horizon 2020. Così alla Politica agricola comune (che rappresenta la quasi totalità della Rubrica 2 del bilancio Ue, o Qfp nel gergo inaccessibile di Bruxelles) nel periodo 2014-2020 sono stati tagliati fondi, rispetto ai sette anni precedenti, per l’11,3 per cento, ossia per 47,5 miliardi di euro. Questo se si ragiona a prezzi costanti del 2011, cioè quelli che contano veramente, mentre c’è un minimo avanzamento se si tengono in considerazione i prezzi a valore corrente.

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Fonte: Gruppo 2013, la Pac 2014-2020, Le decisioni dell’Ue e le scelte nazionali. Per guardare il grafico ingrandito cliccare qui

Chiaro? Allora siete pronti per la seconda tornata di numeri. La Pac si basa su due componenti, che vengono chiamate pilastri. Il primo è quello dei pagamenti diretti agli agricoltori, sussidi veri e propri, che pesano, per capire che non si parla di briciole, attorno al 20% del reddito delle aziende agricole, inteso come differenza tra ricavi e costi. C’è poi il secondo pilastro, quello per lo sviluppo agricolo: sono i soldi che l’Europa mette per i progetti destinati all’agricoltura, con un finanziamento del 50 per cento. L’altra metà la mettono gli Stati oppure le regioni. Il primo pilastro è quello che è stato tagliato di più: da 317 a 277 miliardi di euro, il 12% in termini costanti.

Il nuovo taglio per la crisi russa

Se tutti questi tagli sono già stati decisi, e indietro non si torna, per il bilancio 2015 è in corso una nuova battaglia. La Commissione Ue si è detta intenzionata a tagliare le risorse destinate alla Pac di altri 448,5 milioni di euro. Per essere più precisi, ha deciso che questi soldi, che farebbero parte di una riserva per emergenze legate all’agricoltura (da una malattia delle piante alla mucca pazza), siano usati per fronteggiare l’emergenza Ebola e la crisi russa. I ministri dell’agricoltura dei Paesi Ue, il cosiddetto Consiglio dell’agricoltura, hanno annunciato battaglia e chiesto al nuovo Commissario europeo all’Agricoltura, Phil Hogan, di fare marcia indietro. Lo stesso hanno fatto i cordinatori dei maggiori gruppi politici nel Parlamento europeo. La decisione è attesa per il 15 novembre, quando il Consiglio deve trovare un accordo con il Parlamento europeo sulla revisione del budget.

Italia, pagamenti diretti giù del 20 per cento

Eccoci all’Italia. Sui nostri campi pesavano due macigni: da una parte il taglio generalizzato della Pac a livello europeo. Dall’altra due parole in apparenza innocue, “convergenza esterna”. Il cui significato è però pesante: i Paesi che negli anni precedenti avevano ricevuto una quota maggiore di risorse dalla Pac dovranno dare parte delle risorse a chi ne riceveva al di sotto della media. Entro il 2019 chi ha avuto nel 2009 pagamenti diretti (primo pilastro) inferiori al 90% della media dovrà avere il 30% di risorse in più. I beneficiari, sottolinea uno studio del Gruppo 2013 di Coldiretti, sono soprattutto i Paesi dell’Est: Romania, Polonia, Lituania, Lettonia, Estonia e Slovacchia, ma anche Spagna, Regno Unito e Portogallo.

Il costo in termini di minori pagamenti diretti per gli agricoltori è di circa 280 milioni l’anno. A valori costanti, le risorse di pagamenti diretti della Pac si ridurranno del 18,6% (da 29,4 a 24 miliardi), rispetto a una riduzione della media Ue del 12 per cento. Se si considera che le misure relative alla regolazione dei mercati agricoli (la cosiddetta Ocm) si riducono a prezzi costanti del 28 per cento (da 4,7 a 3,3 miliardi), tutto il primo pilastro scende del 20% a prezzi costanti, cioè 6,8 miliardi. Se si ignorasse l’inflazione il calo sarebbe di 8 punti percentuali, pari a 2,75 miliardi.

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Fonte: Gruppo 2013, la Pac 2014-2020, Le decisioni dell’Ue e le scelte nazionali. Per guardare il grafico ingrandito cliccare qui

Il recupero sullo sviluppo

Siamo quindi stati soltanto bastonati dalla Ue? Per fortuna no. Nelle contrattazioni siamo stati in grado di recuperare sul secondo pilastro, quello destinato agli interventi di sviluppo agricolo. Mentre l’Europa tagliava su questa voce i fondi dell’11% (10,8 miliardi), Italia e Francia sono riuscite a farsi aumentare i fondi: noi dell’1,4% (128 milioni a prezzo costanti in sette anni), i cugini d’Oltralpe del 14% (1,1 miliardi). A prezzi costanti (del 2011) possiamo disporre di 9,266 miliardi, a cui dovranno corrispondere altrettanti fondi di Stato e regioni.

A conti fatti, l’Europa ci dà 41,2 miliardi di euro per la Pac (36 a prezzi costanti). Sui giornali e nelle dichiarazioni dei politici si parla invece sempre di 52 miliardi. Perché? Perché si considerano anche 10,4 miliardi che saranno messi dal cofinanziamento nazionale.

Quanto perdiamo in totale? Considerando i prezzi costanti del 2011, 6,72 miliardi di euro, da 43,3 a 36,6 miliardi. Considerando i valori nominali, 1,31 miliardi, da 42,5 a 41,2 miliardi.

Su come distribuire i fondi tra regioni e Stato le polemiche non sono mancate. Le coperture assicurative o i consorzi di difesa, per esempio, spiega a Linkiesta Ettore Prandini, presidente di Coldiretti Lombardia, sono passate dal primo pilastro (tutti fondi europei passate allo Stato) al secondo. «Ci sono alcune risorse che dovevano essere in capo al primo pilastro e a cui invece è stato chiesto il cofinanziamento alle regioni», commenta. Ma aggiunge che ci sono stati anche dei miglioramenti: «Con le nuove regole c’è una premialità maggiore per le regioni che hanno speso meglio in passato. Così alla Lombardia spetterà il 13% in più per il secondo pilastro, ossia 131 milioni di euro - commenta Prandini -. Inoltre, se una regione spende il 100% e un’altra regione spende, per propria inefficienza, il 50%, la metà rimanente potrà essere usata dalle altre regioni».

Pagatori puniti

L’Italia ha ricevuto soldi dalla Pac in modo superiore alla media, e per questo sarà penalizzata. Ineccepibile. Meglio però ricordare che noi, come gli altri Paesi “ricchi”, diamo più soldi al bilancio europeo di quanti ne riceviamo. Di quanto? Nel 2012, a prezzi correnti, il saldo netto era negativo per 5 miliardi di euro (a prezzi correnti), considerando tutto il bilancio (Qfp), di cui la Pac pesa per circa quattro decimi. Nel periodo 2007-2013 la media è stata di 4,5 miliardi all’anno (a prezzi costanti del 2011). La buona notizia è che nel periodo 2014-2020 il contributo calerà, e sarà di 3,8 miliardi ai prezzi del 2011.

C’è un altro aspetto da considerare, dice Pino Cornacchia, responsabile dello sviluppo economico della Cia, Confederazione italiana agricoltori. «È vero che diamo più soldi alla Ue di quanti ne riceviamo. Ma se non ci fosse la Ue, l’Italia non spenderebbe mai una cifra pari a quella della Pac per finanziare l’agricoltura europea, metterebbe i soldi su altre voci di spesa, come la sanità».

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Fonte: Gruppo 2013, la Pac 2014-2020, Le decisioni dell’Ue e le scelte nazionali. Per guardare il grafico ingrandito cliccare qui

Vino, pomodori, vacche: vincitori e vinti

Le novità su chi beneficerà dei fondi non riguardano solo i soldi per lo sviluppo che vanno alle regioni. Le due parole magiche in questo caso sono “convergenza interna”. Chi riceveva di più, questa volta tra le categorie di prodotti, dovrà cedere i fondi a chi prendeva di meno. Un titolo (cioè un sussidio, nel gergo europeo) che oggi vale mille euro all’ettaro, nel 2015 varrà circa 800, per effetto dei tagli di bilancio. Poi, nel 2017, potrà ridursi fino al 30% a partire dal valore del 2015. Prodotti come la zootecnia da carne, i pomodori da industria, il tabacco e il riso, spiega a Linkiesta Denis Pantini, direttore dell'Area Agroalimentare di Nomisma, avevano un sussidio di circa mille euro all’ettaro. Altri, come il vino o la frutta, non avevano nulla, e cominceranno a ricevere i fondi. Il valore medio a cui tendere è di 280 euro a ettaro. Ma non si arriverà subito, perché vino e frutta nel 2017 arriveranno al 60% di questa cifra, quindi 150 euro, mentre chi aveva mille non potrà scendere più del 30 per cento rispetto al valore del 2015.

Al di là dei numeri, le conseguenze si faranno sentire e l’impatto sarà diverso da regione a regione. Le zone di montagna escono vincitrici, perché i pascoli saranno per la prima volta sussidiati. Stesso discorso per l’Emilia-Romagna e la Toscana, zone produttrici di frutta, e per tutte le regioni che producono vino. Le zone produttrici di pomodori da industria, come Campania o Sicilia, escono invece sconfitte, anche perché tagli arriveranno anche per oliveti e agrumeti. Ne esce abbastanza malconcia anche la Lombardia, per i suoi allevamenti animali. Secondo Prandini il calo si sentirà, ma i timori erano di tagli ben maggiori. «In Lombardia si prevedeva fino a un anno fa una riduzione del 40-60 per cento. Ora, grazie alle correzioni sulla zootecnia, saranno del 10-15 per cento».

A fissare le nuove regole, dopo una lunga negoziazione con le regioni, è stato un decreto del ministero delle Politiche agricole, alimentari e forestali (Mipaaf), approvato il 31 ottobre scorso.

Chiusure in vista?

Sono tagli che mettono a rischio la sopravvivenza delle aziende agricole? «In un momento già difficile per l’agricoltura italiana, il taglio deciso dalla Ue è significativo e mette in difficoltà le nostre imprese - commenta Prandini di Coldiretti -. Purtroppo oggi le risorse che provengono dalla Pac sono fondamentali per determinare una chiusura in positivo o in negativo di un bilancio. Ci accorgiamo del ruolo dell’agricoltura solo quando ci sono casi di dissesto agricolo, e ne ignoriamo i problemi per il resto del tempo. Spesso se ci sono smottamenti è perché le aziende hanno lasciato attività che non erano più redditizie». Per aziende di zootecnia che producono carne (esclusa quella suina) o latte, i sussidi pesano per circa il 15% del fatturato, aggiunge Prandini.

Secondo Pantini, Nomisma, il problema è però meno grave. «Il taglio incide solo sulle aziende che hanno la marginalità più bassa, cioè su chi si affida ai sussidi per sopravvivere».

Anche per Cornacchia, della Cia, il taglio atteso era molto superiore a quello effettivo. «A fronte della discesa dei contributi diretti, c’è stato un aumento di fondi per lo sviluppo rurale. Sono questi strumenti che creano lo sviluppo, molto più dei sussidi, a patto di saperli usare bene».

L’aeroporto saluta i sussidi

Tra gli aspetti della nuova Pac, così come decisa dal decreto ministeriale del Mipaaf del 31 ottobre, ce ne sono anche altri visti con favore dagli agricoltori. Tra questi c’è stato il taglio di tutti i pagamenti diretti a una serie di soggetti che non c’entravano nulla con l’agricoltura. L’elenco è lungo: aeroporti, servizi ferroviari, impianti idrici, servizi immobiliari, terreni sportivi e aree ricreative permanenti, soggetti che svolgono intermediazione bancaria, finanziaria e/o commerciale, società, cooperative e mutue assicurazioni che svolgono attività di assicurazione e/o di riassicurazione, pubbliche amministrazioni. Ma quanto pesavano i fondi dati a tutti questi soggetti? Non troppo, avverte Pantini di Nomisma: circa il 2-3% dei fondi per i pagamenti diretti. Considerato che nel 2007-2013 i pagamenti diretti sono stati pari a 29 miliardi, si parlerebbe comunque di più mezzo miliardo di euro in sette anni. Dal Mipaaf, tuttavia, parlano di cifre molto più basse, nell’ordine di 15 milioni di euro.

Secondo Prandini, Coldiretti, è un’ottima notizia, «perché i pagamenti per un prato verde in un aeroporto erano un’anomalia. Stante che i soldi sono diminuiti, è giusto che vadano a chi è effettivamente un agricoltore».

In effetti lo scopo dell’esclusione di questi soggetti è dovuta all’individuazione dei “coltivatori attivi”, cioè delle persone che davvero lavorano la terra. Sono stati individuati dei criteri (come il fatto che i terreni non siano troppo piccoli), ma spiega Cornacchia della Cia, «si poteva fare molto di più ed essere molto più selettivi».

Tra le novità c’è quella di aver messo un tetto ai sussidi, che non potranno superare i 500mila euro (esclusi i benefici sui contributi per i lavoratori). Chi riceve più di 150mila euro, inoltre, si è visto tagliare i pagamenti diretti del 50 per cento. Anche questo, per Prandini è positivo: «È giusto concentrare le risorse su chi di agricoltura vive. Chi riceveva più di 500mila euro di sussidi spesso era legato a una banca o a una compagnia di assicurazioni».

Braccia ridate all’agricoltura

Una delle poche voci cresciute, tra i tagli dei pagamenti diretti, è quella dei fondi per i giovani. Saranno aumentati del 25% e toccheranno 80 milioni di euro. Si tratta di aiuti diretti per aziende agricole condotte da under 40. Un segnale positivo, che è volto a incoraggiare una crescita degli occupati tra i giovani in agricoltura che è continuata nonostante (o forse proprio grazie) alla crisi economica.

 La battaglia del greening

Un altro aspetto su cui gli operatori tirano un sospiro di sollievo è quello del greening. Di che si tratta? Di una serie di misure che la Ue prevede per interventi ambientali e paesaggistici. La Pac, infatti, negli anni è passata dal concentrarsi solo su aspetti di produzione a misure di tipo anche ambientale, dettate dal Regolamento 1307/2013. Tre sono le misure da prendere: la diversificazione delle colture, il mantenimento dei prati permanenti e l’introduzione di “aree di interesse ecologico”. Non si tratta di briciole, perché alla componente verde dei pagamenti diretti è riservato il 30% del massimale nazionale. In soldoni, l’Italia se non rispetta le regole rischia di perdere un miliardo all’anno.

Anche su questo però si è trovata una mediazione. Gli Stati dell’Europa del Sud hanno fatto notare che è più facile mettere aree di interesse ecologico (per il 5% della superficie) su un prato di pascolo piuttosto che in un filare di viti o in uliveto. È quindi rimasta, spiegano tutti gli interlocutori, una versione più blanda, che prevede la rotazione dei terreni. Fino a 30 ettari sarà necessario avere almeno due colture contemporaneamente, oltre i 30 ettari di terreno almeno tre colture. Una misura che può penalizzare i produttori di mais o di riso del Nord Italia, ma che è spesso già praticata autonomamente per evitare l’impoverimento dei terreni da monocoltura.

E le quote latte?

Sono state la grande battaglia della Lega Nord, che difese in mille modi gli “splafonatori”, cioè gli allevatori che produssero più latte di quanto consentito dagli accordi con l’Ue (decisi nel 1983) e che furono perciò multati. Una serie di coperture politiche agli allevatori, ricostruite in un articolo di Sergio Rizzo del Corriere della Sera, costò allo Stato italiano un conto da 4,5 miliardi di euro. Dal 2015 le famose quote latte saranno abolite. I produttori sono contenti? Tutt’altro. «È una pessima notizia - commenta Prandini di Coldiretti - perché le quote latte hanno garantito che ci fosse una produzione limitata e che fosse tutelata la qualità. Ora ci saranno Paesi europei che aumenteranno tantissimo i volumi» e quindi abbasseranno i prezzi. E le multe? «Ci siamo distinti come un Paese che non rispetta le norme - continua -. Non saremmo a parlare di multe 25 anni dopo, se avessimo rispettato le regole». Ora sarà il mercato a dettare le sue.

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logo-eima-international-2014Dal 12 al 16 Novembre si terrà a Bologna l'Esposizione Internazionale di Macchine per l'Agricoltura e il giardinaggio. Attraverso i link qui sotto potete accedere al sito ufficiale della Fiera e ai principali convegni proposti su le prospettive e opportunità per i giovani in agricoltura e su l'innovazione.

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114978_420x270Momento davvero critico per il settore ortofrutticolo, penalizzato da un andamento climatico decisamente avverso ai consumi e ora anche dall’embargo Russo.

I principali produttori europei, ovvero i Paesi del mediterraneo, avevano già chiesto e ottenuto l’intervento di Bruxelles in favore del settore attanagliato da una crisi senza precedenti. “Le misure annunciate dalla Commissione europea – ha dichiarato il ministro per le politiche agricole Maurizio Martina – interesseranno anche diverse filiere italiane: dalle mele alle pere, dall'uva ai Kiwi, ai pomodori. Si tratta ora di capire bene modalità e tempistiche per fornire tutte le informazioni utili alle imprese".
Ma adesso queste stesse misure non bastano più: l’embargo della Russia mette a rischio altri 70 milioni di euro di export di prodotti ortofrutticoli italiani.
Alla luce di queste emergenze acquisiscono ancora più rilevanza le recenti dichiarazioni di Martina a L’Informatore Agrario. Il ministro ha annunciato tra le prossime azioni di governo di settembre un forte impegno sul fronte dell’export agroalimentare mettendo a sistema tutte le forze del Paese impegnate in tal senso: ambasciate, camere di commercio, Ice, ecc.
Il progetto inizierà a settembre e verrà messo a punto in pochi mesi. Si tratta – ha dichiarato il ministro – di una priorità.
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